I Camaldoli che non ti aspetti

I Camaldoli di Napoli dal Belvedere. (foto di C.Teodonno)

Dal “Paese Vecchio” all’Eremo, attraversando l’antico bosco dei Camaldoli di Napoli per affrancarsi dal caos cittadino

Dire che Napoli riserva tante sorprese può sembrare una di quelle frasi fatte che inflazionano l’immaginario partenopeo, già intriso di innumerevoli luoghi comuni, ma a una città di più di duemila anni possiamo concederle l’attenuante della storia per rafforzare un concetto che, stavolta comune non è.

L’itinerario che oggi vi proponiamo è un’alternativa al nostro Vesuvio, che pure scorgeremo da lontano, è un percorso che ci porterà alla scoperta di un luogo tanto recondito quanto vicinissimo alla città e alle sue roboanti arterie di comunicazione. Partiremo da Soccavo quartiere che giace rumoroso sotto le antiche cave di tufo dalle quali prende il nome e saliremo verso il cosiddetto Paese Vecchio, tagliato, per non dire lacerato, dalla tangenziale e relegato in un limbo tra passato e presente. Questo quartiere nel quartiere lascia infatti ad intendere quel che è stato il suo passato, ovvero un borgo rurale, legato a ritmi ben più diversi di quelli attuali; le abitazioni resistono al tempo sotto decenni di superfetazioni e brutture d’ogni genere, ma ‘e curtine non mentono e si aprono generose agli occhi avidi del visitatore, che con discrezione saprà però interpretarne il passato.

Giunti in via Contieri, passato il ponte della Tangenziale, scorgeremo la segnaletica del CAI che ci porterà verso il bosco dei Camaldoli, dapprima attraverso una rampa asfaltata, che lascia ampio spazio alla natura, con la ginestra, il finocchietto e la valeriana che escon fuori dal bitume, per poi diventare sentiero vero e proprio, non dopo aver superato il consueto e osceno spettacolo di rifiuti che caratterizza le pedemontane partenopee. Finito il tratto carrozzabile, terminano anche le micro-discariche e lo stretto lume del sentiero sale senza grandi strappi fondendosi con la natura circostante, il profumo della ginestra e il suo giallo intenso è a dir poco stordente ma questa è la mia estate, questi sono i miei colori e questi sono i miei profumi che fungono da preambolo all’opulenza estiva della macchia mediterranea.

Lo strato arbustivo si sostituisce subito con quello arboreo di lecci e roverelle, ai quali si aggiungeranno, più in alto, i castagni; basta però uscir fuori dal percorso per inerpicarsi verso i tanti terrazzamenti per scoprire che ciò che fa l’uomo non è sempre un male. Le querce secolari sono sostituite da altrettanto vetusti sorbi ma anche vecchi fichi e viti con tronchi tanto grandi da confondersi con quelli dei numerosi prugni lì presenti. Una volta giunti sui terrazzamenti scopriamo una agricoltura antica, radicata più nella continuità della tradizione che nel commercio, una maniera di coltivare che se non possiamo definire eroica, potremmo definirla ispirata e poetica per lo spettacolo che ci offre sul golfo di Pozzuoli e oltre.

Il Vesuvio alla nostra sinistra sfuma all’orizzonte nella lunga striscia di terra della Penisola Sorrentina che degrada fino a Punta Campanella per poi irrompere nuovamente nelle esuberanti forme di Capri che sembra saltar fuori dalla collina del Vomero. Si vede perfettamente Nisida, l’Isola che non c’è di Edoardo Bennato, incastonata tra Coroglio e Monte Sant’Angelo mentre invece, all’estrema destra, scorgiamo l’urbanizzata piana di Agnano col pennacchio della fumarola di Pisciarelli che la sovrasta e, sullo sfondo, la sovrapposizione di Procida, Vivara e Ischia che creano un tutt’uno interpretabile solo dagli occhi più allenati.

Ridiscesi verso il sentiero riguadagniamo il bosco che dopo esser stato fresco e piacevole e dopo aver attraversato il canalone, diventa di nuovo diradato ed esposto al sole e ricco di vegetazione spontanea: pisello selvatico; orchidee (Serapias cordigera); ma anche mirto, corbezzolo e viburno. Una breve scalinata nella roccia tufacea, costruita dai monaci che oggi come ieri vivono nella pace e nel silenzio di questi luoghi, ci aiuta a superare un tratto altrimenti esposto. Dopo un ulteriore strappo raggiungiamo il grande terrazzamento del Belvedere da dove stentiamo a trovare altri sinonimi dell’aggettivo meraviglioso. Dall’alto vediamo l’impluvio del canalone e i terrazzamenti visitati in precedenza e, col calore, potremmo vedere la danza delle coppie di poiane che sfruttano le correnti ascensionali.

Pochi passi e, dopo aver superato degli orti e un centro di educazione ambientale, ci troveremo davanti a uno dei tanti cancelli chiusi che limitano l’escursionismo locale e, in tal caso, la nostra visita all’eremo sarà rimandata ad un’altra volta.

C’è da dire che la pratica di interdire il passaggio a chi fa sano escursionismo sta diventando una pratica sempre più diffusa, spesso giustificata dai furti, gli atti vandalici e dalla sporcizia cagionata dal passaggio di chi di certo escursionista non può essere definito, ma il compito di chi tutela il territorio è anche quello di interfacciarsi con esso e di dialogare con chi lo vive o ci lavora, per capire, ma anche per far capire, che esiste escursionismo ed escursionismo.