È morto il re, viva il re!

Mural di Jorit nel quartiere San Giovanni a Napoli (foto fonte Il Napoli)

Col rischio di accodarmi all’isteria di massa e alla spasmodica urgenza di tanti nel dire la loro ad ogni costo sull’evento del momento, sento ad ogni modo la necessità di offrire il mio tributo a Diego, mito inconsapevole dei nostri tempi.

“Pero vos no sos español – No soy español, soy de Nápoles – ¿Nápoles? ¡Diego! Yo soy de Buenos Aires. Pues mira, aquí nosostros somos dos extranjeros pero tenemos algo en común, tenemos a Maradona.”

Era il luglio 2008 e mi trovavo nella periferia di Pamplona, in un grande centro commerciale in cerca di un adattatore per l’alimentatore del mio computer portatile; quel breve incontro con quel commesso porteño mi rimarrà impresso per sempre nella mente perché mi fece capire che non bastava conoscere bene una lingua per sentirsi parte di un tutto ma era fondamentale la condivisione di un qualcosa che ci facesse sentire parte di quel tutto. E mai avrei pensato che quel tutto potesse essere Diego Armando Maradona.

Da ragazzo, tra gli anni ’80 e ’90, quando il suo mito si consacrava, non amavo Maradona, non sopportavo il suo atteggiamento da simpatica canaglia, le sue esternazioni politicamente scorrette, la sua vita sregolata e le sue frequentazioni in odore di camorra, soprattutto non ero uno di quelli che scindeva il campione dall’uomo; non l’ho mai fatto e mai lo farò, perché le azioni del campione, così come quelle dell’uomo, hanno sempre e comunque delle conseguenze e non sono mai riuscito, pur amando il calcio, ad annullare il raziocinio di fronte alla passione e all’isteria generale.

Non mi piacque, o per lo meno non capii, quando nell’86 segnò quel gol di mano nella delicatissima partita contro l’Inghilterra, durante i mondiali in Messico; pensai che fosse stato azzardato farlo, visto i trascorsi bellici con quel paese e neanche il suo secondo magnifico gol attenuò il mio sconcerto e, forse unico in Italia, durante la finale di quei mondiali, tifai inutilmente Germania. Neanche capii, quando quella stessa mano, tolse un gol alla URSS dalla sua porta durante Italia 90.

Non mi piacque quando Maradona, in quegli stessi mondiali, istigò i napoletani a tifare per la nazionale argentina prima della semifinale di questa con la nazionale italiana al San Paolo, non mi piacque perché non poteva, non doveva essere lui a dirci cosa fare, perché Napoli non aveva bisogno di un mercenario del calcio per sentirsi o meno italiana, e i tedeschi ne sanno qualcosa. I tifosi napoletani non tifarono Argentina in quella stramaledetta semifinale e fino all’ultimo sperarono nella vittoria, sostenendo la squadra nazionale. Io c’ero, e posso confermarlo. All’indomani di quella sconfitta, Azeglio Vicini, l’allora allenatore di una delle più belle nazionali mai viste, affermò che nel computo totale di quella disfatta ci fu anche il tifo avverso dei napoletani: come perdere stima e dignità in pochi minuti, creando una delle più indegne bufale sulla nostra città.

Giorni dopo, a Roma, il pubblico dell’Olimpico fischiò l’inno argentino; nulla di più squallido in una finale altrettanto squallida, ma a Napoli questo non accadde, i Napoletani non fischiarono nessun inno, almeno quella volta furono più signori dei romani, e lì capii Diego e il suo “¡Hijos de puta!” Da allora per me sarà tale, Diego! Perché incominciavo a capire, a capirlo, nonostante tutto, nonostante tutti.

Poi venne tutto il resto, venne la droga, la camorra, una vita di eccessi e contraddizioni, fatta di evasione fiscale, figli a stento riconosciuti, l’amicizia con il Líder Máximo e le comparsate ben remunerate, fino ad un saliscendi di una salute ballerina come i suoi riscaldamenti in campo, frutto forse dei suoi eccessi in vita. Tutto ciò, molto probabilmente anche peggio di quel suo modo di fare e di essere che me lo aveva in passato reso antipatico, non mi toglieva dalla testa che Diego è stato uno dei pochi, forse anche a sua insaputa, a ribellarsi contro un sistema che appiattisce tutto e tutti, è stato forse uno dei pochi che, grazie alle sue capacità sportive è riuscito a scalfire un mondo del calcio supino all’economia e alla finanza più che ai principi olimpici; ha regalato a Napoli due scudetti che forse mai più rivedrà, elevando la città, più che la squadra, ad un rango internazionale e tirandola fuori da un limbo fatto di luoghi comuni e remore del passato, ha, a modo suo, aggiustato quelli che riteneva errori della storia, così come quello della guerra delle isole Malvinas, e lo ha fatto letteralmente con un colpo di mano, ha reagito suo malgrado, più per istinto che per consapevolezza, a ciò che sentiva ingiusto e ha reagito a tutto ciò; tutto il resto è umana debolezza e, in quanto suo consimile, non mi sento più di giudicarlo e piango anche io per lui.

Oramai Diego è passato definitivamente dall’essere umano all’essere divino, parafrasando Jorit, è entrato ufficialmente nel pantheon partenopeo assieme a Totò, a Massimo e a Pino, tutti a modo loro ironici rivoluzionari che sono riusciti a togliere gli schiaffi dalla faccia di questa città, madre e matrigna di tutti noi che ne siamo figli più o meno meritevoli. Bentornato Diego, bentornato a casa.