La mia città è bella

 

 

La cosiddetta tomba di Partenope a San Giovanni Maggiore (foto di C.Teodonno)

OMNIGENUM REX AITOR
SCS + IAN
PARTENOPEM TEGE FAUSTE

Questo pensavo un sabato pomeriggio dal mio tavolo di fronte a quello di Raimondo di Maio ed Erri De Luca.

La mia città è bella ma è anche strana perché, come spesso accade, tutti ne parlano ma nessuno la conosce realmente. Questo forse accade anche altrove, in tutte le grandi capitali europee, belle senz’anima dove prima o poi dovrai andare, seguendo il gran tour dei poverelli, per mettere la bandierina su quella immaginaria mappa o riempire quell’album delle figurine dei luoghi visitati. Lo stesso però accade con chi la abita la mia città e che spesso vanta conoscenze da genius loci, muscolarmente sbraitate o acquisite tra le pagine di Napoli Retrò.

La mia città, dicevo, è bella, ma lo è solo da lontano, perché quando ti immergi nella sua essenza ne sei stravolto, avvolto, contorto, deformato, non riesci ad esserle distante, ti avvinghia in quella spirale di eventi, immagini, colori, sapori, odori e suoni che ti scuotono fin dentro, anche nei reparti più profondi della tua anima, ti lascia sconvolto come dopo una sbornia, e quindi piacevole non è, anche se, quando tutto passa, ci ricaschi di nuovo.

Domicilio, lavoro e attivismo mi hanno relegato nel Vesuviano, al quale pure visceralmente appartengo, per indole e per radici, ma come scindere il Vesuvio da Napoli? Sarebbe come dire: chi preferisci, papà o mammà?

Scendere sabato scorso a Napoli è stato ancora una volta un trauma, benché tutto il Napoletano sia un contesto caotico, non c’è paragone con la Capitale, anche il sabato mattina, giorno in cui mia moglie ed io scegliamo di fare una passeggiata a Napoli.

Lasciamo l’auto al Brin, e decidiamo di arrivare a Mezzocannone a piedi, sì, perché camminare fa bene ma ti fa vedere anche cose che ad un’altra velocità non riesci a vedere, e neanche a capire. L’immersione nel fetore e nello sporco è nauseante, soprattutto a prima mattina, quando lo stomaco e il fegato non sono stati ancora temprati a certe cose e nonostante il sole non abbia ancora riscaldato i residui organici presenti lungo tutti i marciapiedi e una ciclabile da suicidio di massa. La città è ancora sonnolenta, dimostrando quanto borghese sia, e gli unici proletari che vedo sono Mustafà che coltiva il suo orticello a via Marina e le badanti che fanno la spesa int’e Case Nove.

Passo per corso Arnaldo Lucci, fuori a puteca ‘e Pascalò, il salone della mia infanzia e della mia gioventù ormai abbandonato e fagocitato da un gommista; entro nella citta antica per Porta Nolana, ‘Ngopp’e mura, ‘O lavinaio e via verso il Centro.

È tanto che non scendiamo a Napoli e non possiamo fare a meno di notare che tante delle attività che conoscevamo, frutto di una città operosa, non esistono più, solo le insegne consunte dal tempo ne testimoniano una lontana esistenza. Antri vuoti, cimiteri di un passato che mi sembra ancora troppo vicino da giustificare quell’esito, botteghe troppo spesso sostituite da un mordi e fuggi e da un presente effimeri, un pullulare di improbabili bed & breakfast e cibo, cibo, e ancora cibo, niente per l’anima; neanche le puttane ci sono più, quelle che trovavi anche la mattina sotto i fornici di Porta Nolana.

Il Rettifilo è un coccodrillo sonnolento che di tanto in tanto socchiude un occhio, ma anche lì le attività storiche sono state sostituite da tutto il resto, lasciando presagire l’omologazione dei contesti più turistici di Toledo e dei Decumani. L’abbigliamento Capasso sopravvive ancora, assieme a la Casa della Penna con la sua insegna nero ed oro stile art nouveau. I Quattro palazzi, restaurati, sembrano sostenere con i loro telamoni un passato troppo ingombrante e contrastano con la nuova stazione della metropolitana, non ancora terminata ma già blasonata da uno sciovinismo cieco e sordo ma purtroppo non muto. Il cantiere infinito e la struttura metallica sono stati già vandalizzati dalla presunta arte dei writers e sembrano più vecchi dei palazzi circostanti.

Stessa sorte la Federico II e tutti gli edifici storici di via Mezzocannone, là dove scopro che anche la libreria Dante e Descartes è stata sostituita da una catena di Fast food; i palazzi sono pieni di scritte fatte a bomboletta e manifesti di ogni genere, lerciume vario, cassonetti che tracimano monnezza e mura che trasudano urina.

Eppure, anche attraverso questo squallore, riesci a scorgere poesia, entusiasmo e speranza per dare un senso a tutto questo, ma non è quello dei primati neoborbonici, non è il Napoli Calcio, emblemi di un provincialismo della peggior borghesia che si conosca, questa sì che è da record: per vanto e immobilismo. Quella che ci vorrebbe attaccati ad una contingenza infinita e per tale ragione più capaci di resistere alle difficoltà della vita; ma dove sta l’utilità di vivere costantemente nella precarietà?

Neanche la tanto decantata contraddizione napoletana può aiutarti e giustificare ciò che è questa città, quella va bene solo quando non ti si ritorce contro; manco fosse un valore, ed altro non è che l’amara rivalutazione di un nostro fallimento. Neanche la Napoli turistica, quella da cartolina e che resiste ancora nonostante fosse stata più volte sbeffeggiata da nostri illustri compaesani come Troisi e Salemme e che masochisticamente continuiamo a reiterare. Sembra purtroppo che questo stereotipo sia così soverchiante da non lasciare speranza alcuna alla nostra redenzione e che i più si appiattiscano, con più o meno rassegnato fatalismo, al luogo comune della napoletanità chiassosa, generosa e resiliente, forse alibi di una mafiosità latente e di una camorra immanente.

Eppure la poesia c’è ancora, esaltata dai contrasti stridenti di questa metropoli sovrapposta, stratificata, compressa, condensata, stretta come il suo caffè, pronta a scoppiare, nel bene come nel male, con tutta la sua violenza, come se da una fogna sgorgasse acqua sorgiva ed effluvi floreali; non è facile capire quale forza vitale e creativa porti avanti la civiltà di questi luoghi, forse il suo grande pregio è quel secolare meticciato culturale, sociale e cromosomico che l’ha sempre contraddistinta; ma rimane sempre quel cane che si morde la coda e che si alimenta del suo stesso male e della sua eterna contingenza. Non tutti sono disposti ad accettarla. Per questo Napoli va solo vissuta, non capita, non dal turista da crociera, non dal visitatore attento ma fugace e neanche da partenopeo oriundo, questa città va vissuta dal napoletano.

Il napoletano non è però il chiattillo del Vomero, non è neanche Posillipo o via Orazio, il napoletano è quello che resta e non vive la città da lontano, così come purtroppo fecero e fanno ancora molti figli illustri di Partenope. Troppo facile prendere il buono e lucrarci sopra, centellinando il patrimonio asperso dal seno materno della Sirena, giusto fino a un presunto svezzamento; troppo facile e troppo poco per esprimere un qualcosa in continuo mutamento, in continua alternanza tra il bene e il male; Napoli e quell’estensione della sua essenza che va anche oltre gli stessi confini urbani, può essere solo raccontata da chi la vive, perché è una città che non è né passato né futuro, Napoli è presente.

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