Lavoro: non si gioca con la vita umana

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Ad ogni mondiale di calcio, o grande evento sportivo che sia, salta fuori il grave problema delle morti sul lavoro e che spesso viene affrontato come se fosse una tragedia da addebitare solo ad altri o solo a tali eventi ma, con le nostre migliaia di morti ogni anno, possiamo davvero dare lezioni di civiltà agli altri?

Le morti dei grandi eventi sono spesso da addebitare ad una eccessiva velocità dei lavori per compensare una tempistica sottovalutata e alle scarse misure di sicurezza dei cantieri, che del resto non sono mai troppe; situazioni senz’altro deprecabili ma non ascrivibili solo a quei paesi da noi considerati sottosviluppati o là dove i diritti civili sono inesistenti, così come spesso tendiamo a fare, seguendo l’onda mediatica del momento, e imputando esclusivamente di tutto ciò le grandi manifestazioni sportive.

Secondo alcune stime, comparse sul giornale inglese The Guardian ed altre testate statunitensi e segnalato dalle ONG, i mondiali di calcio del Qatar, appena incominciati, saranno ricordati come i più sanguinari di tutti i tempi. Ebbene le stime del The Guardian, calcolate in base alle informazioni fornite anche dalle ambasciate di India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka, paesi di provenienza della manodopera qatariota, raggiungono la cifra agghiacciante di almeno 6.500 vittime procurate dai lavori per costruire stadi e infrastrutture per i Mondiali di calcio del 2022.

Le cifre sembrano essere approssimative e in alcuni casi pare siano state addirittura ritrattare come è accaduto per il Washington Post, antesignano in questa inchiesta sulle morti bianche in Qatar ma è evidente che in questo caso, come in qualsiasi altra occasione, stare a soppesare le migliaia, così come le centinaia o le decine di morti per un evento pacifico risulta, non solo sterile, ma lesivo della dignità umana e soprattutto di quei poveretti che non sono più tornati a casa dalle loro famiglie.

Detto ciò vorremmo sottolineare che il problema delle morti bianche, Mondiali o meno, ce l’abbiamo anche noi nella civile Europa e nel nostro ameno paese. Non facciamo riferimento solo ai morti di “Italia 90”, dove ce ne furono 24, ma se è vero quindi, come sostiene il The Guardian, che nel decennio 2010-2020 in Qatar sono morte oltre seimila persone, nello stesso decennio, in Italia sono deceduti sul lavoro 14.285 uomini e donne e senza per altro sollevare indignazione se non all’atto di eventi eclatanti o della presentazione dei rapporti dell’INAIL dai quali abbiamo tratto questa informazione. Certo, qualcuno obietterà che facendo il rapporto con la scarsa popolazione del Qatar (2,931 milioni dati 2021) il confronto non regge, e che le cifre del paese asiatico potrebbero essere più alte ma lo stesso vale anche per quelle del nostro Stivale poiché i dati dell’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro sono anch’essi stimati, diciamo per difetto, come si evince alla voce “Open data” dell’istituto dove testualmente si legge:

“I dati in possesso dell’Istituto sono relativi alla popolazione degli assicurati Inail (non vi rientrano, per esempio, gli agenti di commercio, i giornalisti, il personale di volo, i Vigili del Fuoco, il personale delle Forze di Polizia e delle Forze armate)”

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Ovviamente, a queste tristi cifre dobbiamo aggiungere quelle di molti che, lavorando a nero, non risulteranno mai vittime del lavoro; un altro esercito di italiani ma soprattutto di extracomunitari figli di nessuno che troveranno lungo le nostre strade o nelle nostre campagne esanimi e che quasi mai nessuno riconoscerà, quasi come è accaduto in questi anni in Qatar.

Quindi, nell’ottica biblica della pagliuzza e della trave, sarebbe molto più opportuno guardare i guai di casa nostra prima di criticare quelli altrui a meno che, sottolineare la violazione dei diritti civili in Qatar non sia, oltre che un chiaro caso di volpe e l’uva, anche un modo alquanto meschino di distrarre l’attenzione sulle tragedie di casa nostra.

INAIL Relazione annuale 2012

INAIL Relazione annuale 2016

INAIL Relazione annuale 2020