Montagna amara

La ripida scogliera dove è caduto morendo Simon Gautier (foto fonte Getty images)

L’ultima tragedia della montagna, dove ha perso la vita il giovane Simon Gautier, ci ha mostrato ancora una volta quanto sia sconosciuta e quanto sia pericolosa se affrontata con troppa disinvoltura, ma soprattutto quanta ignoranza e malafede esista da parte della stampa generalista e del mondo della caccia.

La montagna, così come altri ambienti impervi, tecnicamente denominati “ambiente ostile” comporta i suoi rischi che ovviamente non vanno sottovalutati, detto ciò, quando accade qualcosa in montagna, subentra nell’immaginario collettivo l’effetto sorpresa e sulla carta stampata l’effetto novità, e su questo si enfatizza oltre il dovuto. Cinicamente parlando, se si andassero a spulciare le fredde statistiche: la strada; il posto di lavoro e il mare, per non parlare della casa, risulterebbero luoghi ben più pericolosi e mortali della montagna stessa. Ma purtroppo non siamo un popolo di montanari.

Quindi, come accade per ogni tragedia, ogni disastro, ogni perdita di vita umana, si cerca una responsabilità, un colpevole. Questo è umano e il fatto di parlarne ora, in questo contesto, così come sui social, è a nostro modo, oltre che una maniera di informare, anche la possibilità di esorcizzare un qualcosa che è difficile da accettare ovvero la morte di un giovane.

Conoscendo le dinamiche del soccorso, non crediamo che le cause della morte del povero escursionista siano da attribuire, almeno completamente e senza l’esito di indagini definitive, alla lentezza degli interventi ma alla poca conoscenza del territorio da parte di chi ci si addentra, ma anche da parte di chi gestisce i soccorsi. La maggior parte degli incidenti in montagna, e basandoci sulle statistiche del CNSAS (Corpo Nazionale di Soccorso Alpino e Speleologico), ovvero quelle relative ai loro interventi, sono in favore di persone inesperte che si inoltrano, per le cause più svariate, lungo sentieri che poi perdono, trovandosi in difficoltà o in pericolo.

L’altro aspetto è invece quello dell’effettivo soccorso. Non credo sia quest’ultimo il caso specifico ma spesso accade che ci si rivolga, anche con solerzia, a chi ha meno competenza in materia, ovvero ai Carabinieri, ai Carabinieri Forestali, ai Vigili del Fuoco o alla Protezione Civile. Salvo competenze specifiche e personali, gli unici nel Meridione che possono fare un soccorso tecnico e sanitario sono i membri del CNSAS ma spesso vengono chiamati soltanto quando, chi arriva per primo, si rende conto della propria incapacità di intervenire. È opportuno quindi, quando si chiama il 118, di richiedere esplicitamente l’intervento del CNSAS o chiamarlo direttamente. Ovviamente anche l’operatore del 118 deve essere capace di capire che tipo di intervento necessita il caso in questione ma spesso gli elementi sono pochi ed è veramente difficile capire, in base alle informazioni fornite, stato e ubicazione di chi è in difficoltà. Poi, purtroppo, ci sono gli specchietti per le allodole, come ad esempio i droni, ma come spesso accade, quando si passa dalla “modalità spot” a quella “vita reale”, i nodi vengono sovente al pettine. In questo caso, politica ed informazione dovrebbero passarsi una mano sulla coscienza.

Purtroppo la tecnologia in certi contesti non serve granché perché semplicemente non funziona o va in avaria come accade per le batterie dei cellulari o dei GPS, per non parlare poi dei droni che, vista la vegetazione di quei luoghi servirebbero soltanto se forniti di rilevamento di calore ma un corpo ahinoi morto, ormai, non ne trasmette più ed è opportuno affidarsi a chi conosce realmente la montagna come i volontari del CAI (Club Alpino Italiano) e, in caso di incidente, al Soccorso Alpino (CNSAS). Poi c’è la fatalità che, in montagna come al mare e dappertutto ci mette del suo.

A questo aggiungiamo la probabile speculazione di chi, in questi frangenti, avrebbe fatto meglio a tacere. Facciamo riferimento a chi ha fatto allusione ad un attacco di lupi e cinghiali quale causa di questa tragedia. Ora, ci rendiamo conto che molti giornalisti trattino materie che non conoscono per niente, ma si scegliessero meglio le fonti sul posto. C’è la vaga impressione che, chi ha fatto tali allusioni, se non in vena di presenzialismo, abbia cercato un avallo in favore della caccia, come se non bastasse il piombo e la morte diffusi già fuori e dentro il Parco. È molto probabile che il “cacciatore” intervistato dal Giornale del Cilento, testata che ha poi rimandato con buona probabilità la stessa bufala a Mattino, Messaggero e TG1, speri, sulla scia delle ultime disposizioni regionali, in un’estensione della caccia selettiva in area parco, non solo contro i cinghiali (menzionati guarda caso anch’essi nei telegiornali e immessi dagli stessi cacciatori per l’attività venatoria), ma addirittura contro i lupi, di cui da secoli non si hanno notizie di attacchi, nei confronti di un uomo tutt’altro che amichevole nei loro confronti. Inutile sottolineare, rimanendo in ambito animale, lo sciacallaggio del personaggio e l’impreparazione dell’informazione che non è stata capace, non solo, come all’epoca dei “gatti kamikaze” del Vesuvio (incendi del 2017), di trovare fonti attendibili per fare una corretta informazione, ma di mettere in atto quel sano scetticismo e quel minimo di buon senso che dovrebbe possedere ogni giornalista.

Andare in montagna è dunque una cosa seria, così come lo è andare per mare ma spesso ci si improvvisa. La stessa logica la si potrebbe attuare sulle nostre strade dove la strage è quotidiana ma, attenendoci al nostro, anche quando si è esperti, quando si è calcolato tutto e al netto del nostro essere uomini, e quindi fallibili, esiste un elemento sorpresa, l’imprevisto e la fatalità che in ambiente ostile non è cosa infrequente. Non viviamo nel mondo della perfezione e c’è tanto da cambiare ma le critiche devono essere costruttive e possibilmente ex ante più che ex post e magari con una reale cognizione di causa.