La scuola è finita. W la Scuola!
Riflessioni di un docente irriverente.
“Io insegno per imparare”
La scuola è finita, un altro anno scolastico è terminato ma, come spesso accade, non tutti vedono questa chiusura allo stesso modo. Una visione romantica, e quindi datata, vede quest’evento come un naturale passaggio che ciclicamente coincide con la stagione estiva e che vorrebbe docenti e studenti felici e zompettanti sulle spiagge, liberi da ogni impegno e responsabilità. Altri storcono invece il naso perché coltivano, ormai da tempo, una nuova visione di scuola, presa a riferimento come alternativa ai nonni ovvero, soprattutto in ambito primario, quella di un baby sitting gratuito per le nuove esigenze delle nuove famiglie, sempre più impegnate paritariamente in ambito lavorativo. Il resto è quattro chiacchiere sulle tracce della Maturità e poi via, se ne riparla a settembre come una volta col campionato.
Ma la scuola è altro, ed anche la sua tempistica non è più quella di una volta. Ci sono esami, esami di stato, esami di recupero e tutta una serie di ottemperanze che arrivano fino a fine luglio e talvolta oltre, contrastando drasticamente quella visione stereotipata del docente libero tre mesi all’anno che, anche se fosse vera, andrebbe ridimensionata nell’ambito delle libere scelte professionali e non in una mal celata invidia nei confronti di un chi, ma soprattutto, di un qualcosa di non ben conosciuto e messo là a mo’ di spauracchio come bersaglio esemplare delle altrui frustrazioni.
Per me, come per tanti, la chiusura dell’anno scolastico, non è coincisa col suono della campanella ma verso le 21.00 con la chiusura del primo dei 7 scrutini che mi attendono in queste settimane. Ma lo stupore che mal cela l’incredula saccenza della maggior parte degli interlocutori, non è supportato dalla consapevolezza, perché non si può e neanche si vuol capire cosa significhi essere docente, soprattutto con un giudizio supportato da un comodo luogo comune e non dall’esperienza, ma da una visione a compartimenti stagni che considera come imprescindibile solo ciò che è personale e non tutto il resto. Soprattutto non si ha il minimo sentore che la scuola è il primo argine della società contro i frangenti del mondo, e contro ogni deriva statalista, è una diga che spesso fa acqua da tutte le parti ma resiste perché puntellata da noi docenti e da tutti coloro che credono ancora in questa istituzione.
Ma non fa nulla! Perché quello che gli altri non sanno, o fanno finta di non sapere, è che, sotto i quintali di documenti che dobbiamo produrre (alla faccia della dematerializzazione!), al di là dei diktat di dirigenti interessati più alle carte che alla didattica e dell’appiattimento culturale e procedurale voluto dalla burocrazia della politica di turno, e dell’irriconoscenza delle famiglie, noi insegnanti viviamo un’esperienza meravigliosa, il nostro lavoro, spesso definito missione, più per non pagarci che per elogiarci, comporta effettivamente la possibile e la grande responsabilità di guidare la crescita umana e culturale dei nostri giovani e quindi dei futuri cittadini.
Sì è vero, non tutti i docenti hanno le stesse motivazioni, non tutti sono preparati (ma poi perché giustificarsi vista la trasversalità della cosa?), ma il rapporto che si istaura tra i ragazzi e noi è unico e spesso lascia segni indelebili e forse questo fa paura a tanti, vuoi per l’onere che ne consegue, vuoi per la direzione che possiamo dare alle future generazioni. La responsabilità è univoca ma la crescita è ambivalente e lascia aperte strade per tutti, ragazzi e professori, un lavoro artigianale che non è mai lo stesso, perché i ragazzi non sono mai gli stessi e per ognuno devi trovare la parola giusta; persone che spesso con noi si aprono più che con i loro stessi genitori, oppure dobbiamo interpretare le loro frustrazioni, le loro paure, le loro insicurezze con indicibili e a volte insostenibili responsabilità. Non è facile! L’università non ci ha preparato a tutto questo, e spesso il nostro lavoro, ma oserei dire la nostra cura dei giovani, deve arrestarsi, non solo davanti ai nostri limiti, ma anche davanti alle altrui competenze e ai sacrosanti diritti e doveri di una famiglia che non sempre riesce a capire, e addirittura a vedere, quanto grandi e devastanti siano i traumi adolescenziali.
Ad ogni fine ciclo assistiamo ad abbracci e lacrime, goliardia e senso di liberazione, sguardi che si incrociano con i prof, talvolta coscienti che saranno le ultime volte che questo accadrà, ma va bene così, non è la nostra persona che devono portare nel loro bagaglio di esperienze ma il nostro messaggio, che non è solo di conoscenze, abilità e competenze ma anche valori umani ed esperienza di vita vissuta. Il nostro non è un semplice lavoro ma è la ferma volontà nel credere in un ideale, è il non volersi arrendere davanti ad una predeterminazione di uno status sociale e magari è quell’aggrapparsi all’utopia di un abbattimento di ogni tipo di barriera.
Noi ci stiamo provando, e lo facciamo con convinzione e passione, ma gli altri, le altre parti della società, sono consci delle loro responsabilità, complementari alle nostre, o stanno ancora una volta pensando di demandare tutto esclusivamente alla scuola?
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